oQualcuno ieri scriveva che nella nostra epoca l'informazione si basa sull'immagine. Niente di più condivisibile, a patto che si prenda la frase nel suo senso letterale.
L'informazione si basa sulle immagini, esse sono la sua base e il suo pretesto, in qualche modo; anzi, senza esagerare, potremmo dire che l'immagine è il nutrimento
dell'informazione, che questa si alimenta costantemente di immagini: festino infinito della comunicazione in cui ogni informazione divora parassitariamente l'immagine sulla quale si innesta. Dopotutto, le immagini non hanno un senso (definito), non sono a lettura univoca forse non sono nemmeno leggibili. Nella loro opacità, le immagini necessitano di un'operazione che sappia portarle al chiarore della lettura, ma così rischiarate esse restano come invisibili sotto la luminosità accecante di ciò che si proietta su di esse. E' il problema della didascalia, così come del montaggio (le immagini di Ejzen tejn che dovrebbero docilmente sparire nel montaggio ideologico). L'immagine conta più della parola che la spiega e la rischiara solo fino al momento in cui quest'ultima non è stata in grado di catturarla, di appropriarsene e imbrigliarla, occultandola nelle pieghe del linguaggio. Forse non è l'immagine che conta in questa società dello spettacolo: essa funge solo da base, da materia prima, mentre in alto, assurta al rango che spetta al Senso, sta la didascalia compiutezza dello spettacolo stesso. L'essere bombardati costantemente dalle immagini non è altro che il diretto corollario di questa preminenza della parola nella sua relazione con l'immagine. La prima necessita di un continuo consumo di immagini per potersi alimentare, ed è per questo che possiamo dirci insensibili alle immagini: perché ora esse non riescono nemmeno più a toccarci, poiché sono già sempre riprese da un discorso che sia in grado di orientarne sapientemente la lettura (cosa ben diversa da un incontro). Le immagini non ci toccano più, non hanno più alcun potere su di noi (in questo senso ne siamo assuefatti): avidi di parole, di senso, di idee o ideali, noi passiamo attraverso le immagini per raggiungere la forma limpida della Verità, il loro senso segreto fattosi parola. E così ogni immagine è perfettamente scambiabile, perfettamente sostituibile, ciascuna pronta ad anticipare la prossima immagine da mostrare, o meglio: consumare, ma consumata senza qualcuno l'abbia veramente incontrata.
(Ieri ho guardato per la prima volta le fotografie del corpo di Stefano Cucchi, senza una voce che mi narrasse gli avvenimenti che hanno deciso della sua morte, senza didascalia che ne illustrasse poiché è solo la parola che illustra l'opacità delle immagini senza una didascalia che mi porgesse la Vera storia. E, nel guardare queste foto, senza più nemmeno aver la forza di leggere l'articolo, le parole son come rimaste soffocate in gola, il pensiero infranto.)
L'informazione si basa sulle immagini, esse sono la sua base e il suo pretesto, in qualche modo; anzi, senza esagerare, potremmo dire che l'immagine è il nutrimento
dell'informazione, che questa si alimenta costantemente di immagini: festino infinito della comunicazione in cui ogni informazione divora parassitariamente l'immagine sulla quale si innesta. Dopotutto, le immagini non hanno un senso (definito), non sono a lettura univoca forse non sono nemmeno leggibili. Nella loro opacità, le immagini necessitano di un'operazione che sappia portarle al chiarore della lettura, ma così rischiarate esse restano come invisibili sotto la luminosità accecante di ciò che si proietta su di esse. E' il problema della didascalia, così come del montaggio (le immagini di Ejzen tejn che dovrebbero docilmente sparire nel montaggio ideologico). L'immagine conta più della parola che la spiega e la rischiara solo fino al momento in cui quest'ultima non è stata in grado di catturarla, di appropriarsene e imbrigliarla, occultandola nelle pieghe del linguaggio. Forse non è l'immagine che conta in questa società dello spettacolo: essa funge solo da base, da materia prima, mentre in alto, assurta al rango che spetta al Senso, sta la didascalia compiutezza dello spettacolo stesso. L'essere bombardati costantemente dalle immagini non è altro che il diretto corollario di questa preminenza della parola nella sua relazione con l'immagine. La prima necessita di un continuo consumo di immagini per potersi alimentare, ed è per questo che possiamo dirci insensibili alle immagini: perché ora esse non riescono nemmeno più a toccarci, poiché sono già sempre riprese da un discorso che sia in grado di orientarne sapientemente la lettura (cosa ben diversa da un incontro). Le immagini non ci toccano più, non hanno più alcun potere su di noi (in questo senso ne siamo assuefatti): avidi di parole, di senso, di idee o ideali, noi passiamo attraverso le immagini per raggiungere la forma limpida della Verità, il loro senso segreto fattosi parola. E così ogni immagine è perfettamente scambiabile, perfettamente sostituibile, ciascuna pronta ad anticipare la prossima immagine da mostrare, o meglio: consumare, ma consumata senza qualcuno l'abbia veramente incontrata.
(Ieri ho guardato per la prima volta le fotografie del corpo di Stefano Cucchi, senza una voce che mi narrasse gli avvenimenti che hanno deciso della sua morte, senza didascalia che ne illustrasse poiché è solo la parola che illustra l'opacità delle immagini senza una didascalia che mi porgesse la Vera storia. E, nel guardare queste foto, senza più nemmeno aver la forza di leggere l'articolo, le parole son come rimaste soffocate in gola, il pensiero infranto.)
marco
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