24.11.09

Barcellona. Non-luogo e marca

Nonostante le comodità evidenti della scelta, la pratica dell'autostop non è una delle modalità di viaggio più facili. Se poi il tragitto comporta alcune centinaia di km, nonché il passaggio di una frontiera, si comprende come la riuscita sia cosa piuttosto aleatoria. Salvo rare occasioni fortuite, ogni passaggio non è altro che l'aggiunta di una tappa intermedia e spesso imprevista rispetto all'itinerario pianificato. E così Arles, Nîmes, Perpignan o Girona non restano più semplici nomi marcati su una cartina stradale, ma finiscono per concretizzarsi in altrettanti svincoli autostradali: l'impressione che si ha ad ogni passaggio conclusosi è paradossalmente quella di essersi avvicinati alla meta, ma avendo allungato tuttavia il percorso. E' una forma di concretizzazione dei luoghi. Beninteso, l'impressione è solo apparente: innanzi tutto perché ad ogni arresto si è di nuovo consegnati al caso; secondariamente, perché l'autostrada, nonostante quanto il senso comune dia a credere, non passa per le città: essa semplicemente le include estromettendole dal proprio percorso, dalla propria linearità ideale. Il dispositivo-autostrada esclude per principio ogni luogo propriamente detto, restituendoci alla solitudine delle corsie, degli svincoli o dei caselli, solitudine comune ai non-luoghi in cui tutto si riduce al passaggio di soglie innumerevoli. La stessa automobile non è altro che un non-luogo, nel contesto autostradale. O almeno dovrebbe essere tale, se il gesto dell'autostop non intervenisse a minare la condizione di impermeabilità in cui abitualmente si trovano i passeggeri del veicolo. Proprio dove quest'ultimo – con le sue portiere ben chiuse, con i suoi vetri alzati e, sempre più spesso, opachi – è chiamato a garantire l'assoluta assenza di qualsiasi relazione inaspettata (che non sia dunque già compresa nelle regole del dispositivo autostradale – il pedaggio – o nella scelta del dispositivo automobilistico – i compagni di viaggio), proprio là, ecco che l'autostop intoduce niente meno che un incontro inaspettato. Di questo incontro, niente si può prevedere, non si può sapere se esso sarà fortuito o indesiderato, se avvicinerà alla meta o se creerà soltanto altri ostacoli. Non si tratta propriamente di fiducia. Nell'istante del suo darsi, l'incontro non lascia alcuna apertura alla sicurezza: non vi è alcuna segnatura, alcuna marca che possa delimitare e inquandrare l'evento. Nessuna fiducia all'interno del non sapere di questo incontro, ma una sorta di comune abbandono, e un incrocio di bisogni, il loro incontrarsi sul limitare di un dispositivo. Ed è solo con l'utilizzo della marca, di una qualsiasi marca che possa introdurre una individuazione, che tutto si risolve nella normalità, nella relazione. Ecco allora che al solo pronunciare il vero nome della destinazione, Barcellona, l'effetto della marca ha già cambiato la natura effettiva dell'incontro, come se già solo questa parola potesse disvelare l'identità precisa degli individui coinvolti. Se prima l'incontro si giocava semplicemente sulla sovrapposizione di due percorsi, ora la marca produce la necessità di un intrecciarsi di narrazioni, uno scambio di storie. Sì è compagni di viaggio. Strana alchimia, quella della marca: essa non si comporta come un semplice attributo inessenziale verso il suo sostantivo, o come un accidente verso l'essenza a cui si aggrappa; la marca, al contrario, si innerva in profondità in ogni singolarità, in ogni evento o in ogni essere toccati da essa, modificandone le traiettorie, operando una trasmutazione tanto del loro darsi quanto del modo in cui esse sono percepite. [continua]
Marco

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